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Una vita per la vela

Una vita per la vela

Luxgallery incontra Bruno Finzi, Presidente dell’Offshore Racing Congress

Al Salone Nautico di Genova, la vela attira sempre folle di appassionati. Uno sport che è sinonimo di libertà ma che, nelle competizioni ufficiali, è regolato in maniera severa. Norme e regolamenti che nascono in seno all’ORC, Offshore Racing Congress, organismo internazionale guidato da un italiano, Bruno Finzi. Luxgallery lo ha incontrato e si è fatto raccontare i segreti dell’ORC e di una vita per mare.

Cosa è precisamente l’ORC?
L’ORC  è nato alla fine degli anni ’60, da un’idea americana e inglese, per dare una “casa” a tutti coloro che si occupavano di navigazione d’altura. A quei tempi c’erano diversità di regolamenti tra Stati Uniti e Gran Bretagna, così si decise di dare vita a un organismo ad hoc per creare un regolamento di handicap che permettesse a imbarcazioni diverse di regatare insieme calcolando, attraverso questo regolamento, un sistema di compensi che determinasse una classifica univoca e omogenea al termine della regata. Questa organizzazione è stata in mano a una dirigenza anglosassone fino alla metà degli anni ‘90. A partire da quel periodo, la vela italiana, soprattutto dopo le prime esperienze di Azzurra in Coppa America e di numerose barche a livello di regate offshore, si è affermata parecchio e parallelamente è cresciuta la rappresentanza italiana in seno all’ORC: in virtù dei nostri successi, la voce degli italiani ha avuto sempre più peso.

E qui entra in scena Bruno Finzi…
Da qui è nata la richiesta, fattami dagli inglesi, di far parte in un primo momento dell’Administrative Committee dell’ORC; successivamente sono diventato vicepresidente e poi presidente nel 2002, ruolo che ricopro tuttora.

Onori e oneri?
È un compito difficile, perché alla fine degli anni ‘80 gli inglesi, con il loro RORC (Royal Ocean Racing Club) si sono rifiutati di implementare l’ultimo, ai tempi  avanzatissimo sistema di stazza di ideazione americana, l’International Measurement System, e hanno deciso di continuare a portare avanti il loro sistema di stazza, Channel Handicap System, in base al quale producono le loro certificazioni. Si è tornati quindi a una situazione simile a quando è nato l’ORC, con un gruppo di nazioni, prevalentemente anglosassoni, che utilizza un sistema di stazza proprio, e un gruppo di nazioni che utilizza i sistemi di stazza ORC, che nel frattempo sono cresciuti e si sono differenziati.

E la federazione internazionale della vela?
L’ISAF (International Sailing Federation, ndr) ora è un po’ in crisi d’identità; mentre un tempo era dedicata solo alle classi olimpiche e vedeva i suoi introiti gestiti dai fondi avuti ogni 4 anni dal CIO, negli ultimi tempi ha cercato di ampliare il proprio raggio d’azione, interessandosi anche alle regate d’altura e alla numerosa folla di velisti che la pratica. Si è quindi creata una situazione di mancanza di coordinamento tra le organizzazioni che gestiscono lo sport della vela, una situazione difficile in cui l’Italia si sta adoperando per cercare di trovare una soluzione che vada al di là dei giochi commerciali. Il RORC, infatti, si sostiene anche con la vendita delle proprie certificazioni, mentre l’ORC è un’organizzazione no profit che ha interesse a sviluppare una ricerca scientifica che porti ad avere i sistemi di stazza più moderni e accurati possibili, per formare handicap univoci e oggettivi da utilizzare sui campi di gara.

Una situazione intricata…
Oggi siamo in un momento di transizione che speriamo finisca presto, perché l’interesse del velista italiano che regata all’estero non è quello di assistere a una guerra commerciale tra diversi sistemi e organizzazioni ma l’essere servito al meglio da un’unica organizzazione che gli fornisca il prodotto migliore e riconosciuto universalmente.

Che sfida è per lei?
Una bella sfida che però arriva, ahimè, dopo il periodo attivo della vita da velista; solo chi ha la passione e ha fatto anni di regate – io ne ho fatti 30 – poi trova il tempo e la volontà per continuare a dedicarsi in questo modo a questo mondo: certo, è più divertente andare in barca che fare riunioni parlando della superficie e della forma degli spinnaker asimmetrici. Però la passione che si ha andando per mare rimane dentro a tutti i livelli: dal bambino che comincia sul suo optimist fino alle regate oceaniche o all’America’s Cup, si rimane per sempre legati dentro a questo sport, anche in una commissione o in un comitato.

L’accresciuta popolarità della vela: un bene o un male?
Penso che la vela non sia e non debba essere uno sport di élite, ma debba essere accessibile a tutti. Io non ho mai posseduto una barca a vela: ce ne sono talmente tante che hanno bisogno di un equipaggio per andare avanti che qualsiasi giovane, anche senza i mezzi per poterne acquistare una, può praticare questo sport a ogni livello. Ritengo che i media e la pubblicità che le imprese degli italiani hanno fatto in Coppa America e in altri ambiti abbiano fatto solo bene a questo sport: vorrei vedere molti più velisti che calciatori nel nostro Paese. Penso che, insieme a quelli legati alla montagna, la vela sia l’unico sport che porta le persone a vivere più vicine alla natura. Restare in giro per giorni e notti in regate d’altura aiuta a conoscere la natura e insegna a stare in gruppo, una disciplina di base che è utilissima nella vita. Senza contare che io, grazie alla vela, ho girato in tutto il mondo, cosa che non mi sarebbe stato possibile fare altrimenti.

Una forzatura, dunque, accostare la vela al lusso e all’esclusività?
È necessario e giusto che gli armatori, che lo facciano per diletto o passione, abbiano forti disponibilità economiche. Se invece parliamo di vela come sport, ci devono essere sì armatori che finanziano, e quindi con una loro dimensione di lusso, ma poi queste persone, come per esempio in Formula Uno, hanno bisogno di un equipaggio che faccia andare la barca: è qui che si apre lo sport a tutti.

Una vita passata in mare come la sua dovrebbe essere piena di aneddoti…
La vela è uno sport in cui si fanno amicizie che durano per la vita. La mia è piena di ricordi delle regate che ho fatto e degli amici con cui le ho vissute.  Sono amicizie imperdibili: restare su una barca per giorni – io ho fatto il giro del mondo nel ‘77-78, quando c’erano tappe che duravano anche  40 giorni – permette di vedere gli altri compagni di bordo in ogni forma, dalla più bestiale alla più interiore. Anche dopo 30 anni, le persone con cui ho fatto questa regata sono amici come il primo giorno. Difficile menzionare episodi particolari, anche se uno dei momenti più belli che si possono vivere regatando è l’arrivo in porto, magari di notte, oppure passata la mareggiata, quando si tolgono i terzaroli e si è coscienti di aver superato la forza della natura senza danni.

Almeno un episodio…
Ricordo che la regata Fastnet, al largo delle coste della Gran Bretagna, nell’85 fu particolarmente battuta dai venti, oltre 35 nodi in partenza; partimmo con la nostra barca e dopo poche miglia si stracciò la randa, dovemmo mettere la randa di cappa perché il vento era rinforzato a 40 nodi, costringendo più di metà della flotta al ritiro. Dopo il primo giorno di navigazione, mentre eravamo verso Land’s End, io ero al timone e un compagno mi chiamò per segnalarmi una balena. Ci avvicinammo e scoprimmo che era uno scafo rovesciato: era il Drum, la barca a vela di Simon Le Bon che aveva perso la chiglia e si era rovesciata trascinando in acqua lui e l’equipaggio. Poi via radio sapemmo che erano stati salvati dagli elicotteri, ma l’incontro con questa balena/barca rovesciata, dopo una notte di tempesta, rimarrà sempre nella mia mente.

Lei e il salone di Genova
Di solito quello di Genova è un salone di interesse notevole per chi vuole comprare una barca; ci sono quasi sempre andato con amici che mi hanno portato come “consigliere per gli acquisti”. È anche una sede in cui le persone si incontrano per stendere i programmi di regata per l’anno seguente. Per questi due aspetti, ritengo che il salone sia un appuntamento cui è difficile mancare.

Davide Passoni