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Toy Watch, il tempo è un gioco

Toy Watch, il tempo è un gioco

Intervista a Sandro Gibillaro

Come registrare tassi di crescita a due cifre anche in un periodo di vacche magre come quello da cui, dicono, pian piano stiamo uscendo? Fate un salto a Milano, via Fatebenefratelli 32, e citofonate a Toy Watch. Se siete fortunati, lo trovate e non è impegnato in qualche conference call con gli Stati Uniti,  potete fare due chiacchiere con Sandro Gibillaro, direttore generale dell’azienda nata quattro anni fa dall’idea di due collezionisti di orologi d’epoca, Marco Mavilla e Mara Poletti, e dall’impulso del finanziere Gianluca Vacchi. Vi racconterà di come un brand tutto italiano si è affermato negli Usa al polso di Michelle Obama, Oprah Winfrey, Michael Jordan, Madonna e altre celebrity, è tornato a casa e da lì ha “dato l’assalto” al mondo, generando cifre da capogiro, diventando un must-to-have e rivoluzionando in parte il concetto di lusso. Ecco che cosa Gibillaro ha raccontato a Luxgallery.

Abbiamo letto di previsioni di fatturato 2010 a 22 milioni. Realistico?
Diciamo che nella nostra breve storia siamo riusciti a stupire per la progressione dei risultati. A stupire sia per gli azionisti che per i soggetti finanziatori, quest’ultimi mediamente più “severi” nei loro giudizi. Poter incontrare periodicamente e condividere con loro sistematiche revisioni al rialzo delle stime, non può non riempire di orgoglio, a maggior ragione in contesti congiunturali come quelli che stiamo vivendo. Sei milioni e seicentomila euro nel 2007, partendo da zero, 9 milioni nel 2008, fino alla fortissima accelerazione del 2009 che ci ha portato ai 16 milioni circa di fatturato, grazie alla “semina” dei due anni precedenti. Per quanto riguarda l’anno appena cominciato, diciamo che siamo ottimisti.

E sono continuate le crescite a due cifre…
Nel 2008 abbiamo realizzato +32-35% sul 2007, +75-78% nel 2009 sul 2008. Senza queste progressioni e senza nuovi risultati in crescita, una partenza brillante come quella del 2007 non avrebbe avuto senso. Venendo al 2010, nei primi due mesi dell’anno abbiamo già un fatturato a +12% rispetto all’intero primo trimestre del 2009: +150% a gennaio e chiuderemo febbraio in linea con questi valori. Basti dire che i due negozi italiani di punta, quello di via Montenapoleone a Milano e di via Del Babuino a Roma, a gennaio hanno fatturato in media +36% rispetto al gennaio dello scorso anno.

Novecento punti vendita nel mondo, 11 franchising, 4 monomarca… Dove volete arrivare?
Il modello retail è un modello che funziona, tanto che a breve apriremo il quarto punto vendita diretto in Italia, a Venezia. Abbiamo aperto a Londra a settembre-ottobre dello scorso anno ed è il negozio che sta performando meglio in assoluto. Ci sono altri progetti in fieri, tra cui una serie di potenziali nuove aperture, che saranno al vaglio degli azionisti per tarare il piano di sviluppo, ma posso dire che il 2010 sarà un anno di aperture, sia di negozi diretti che in franchising: in Medio Oriente – Dubai, Qatar, Bahrain e Kuwait -, mentre siamo già in Libano e stiamo aprendo il terzo punto vendita in Turchia, il secondo a Istanbul. Poi ci saranno Singapore, l’Indonesia, la Malesia, la Cina, alla quale ci accosteremo un po’ alla volta, perché è un mercato molto complesso.

E l’Europa?
In Europa abbiamo bacini potenziali di crescita enormi: siamo da un anno in Francia, in Germania siamo appena arrivati, siamo da poco nel Regno Unito e ancora non siamo in Svizzera e nel Sud Europa, Grecia, Spagna, Portogallo.

Come mai?
Perché eravamo focalizzati a gestire il business negli Usa e in Asia. L’asse di sviluppo è stato infatti Usa-Hong Kong-Italia e dall’Italia poi in Europa. In questi processi bisogna mettere in conto almeno un anno per l’individuazione del partner giusto e la definizione del contratto, oltre al tempo necessario per trovare distributori che vogliono investire nel retail. In questo senso, la crisi degli scorsi mesi ci ha toccato, perche trovare a fine 2008 degli investitori che fossero disposti a investire su marchi emergenti non è stato facile, ha comportato almeno tre-sei mesi di stasi.

Perché chi può permettersi un Patek Philippe, acquista anche un Toy Watch?
Sono due occasioni di acquisto diverse, anche se da quello che emerge dalla conoscenza che abbiamo dei nostri clienti è che spesso possiedono già un Rolex, un Patek Philippe o un altro orologio prestigioso. Del resto, il nostro pubblico è trasversale, va dal top manager in giacca e cravatta al rapper con felpa e cappuccio. È gente che, nel momento in cui compra un Toy Watch, vuole gratificarsi con qualcosa di diverso, più modaiolo, che abbina al vestito o, in estate, qualcosa di più easy going. L’acquisto di un Patek Philippe è invece un momento di gratificazione “istituzionale”. Come detto, sono due momenti d’acquisto differenti, ma uno non esclude l’altro, anzi… Sono due modi diversi di concepire il prodotto e la gratificazione che se ne trae.

Il fenomeno Toy Watch può essere accostato al fenomeno Swatch degli Anni’80-’90?
Vedo l’attinenza con Swatch se penso a Swatch come all’azienda che è stata in grado di reinventare l’orologio, facendolo passare da strumento di misurazione del tempo ad accessorio, a colore, gioco, dando il via anche alla dinamica del collezionismo: chi ha acquistato Swatch è assai improbabile che si sia fermato a un modello solo, così come chi ha un Toy Watch. In questo senso, Toy Watch è la Swatch evoluta di fine Anni ’90; siamo molto più vicini al mondo della moda rispetto a Swatch, abbiamo posizionato il prodotto a un livello superiore di quanto hanno fatto loro, ma il concetto, il pensiero a monte e il forte orientamento al modello retail ci accomunano.

In definitiva: perché Toy Watch funziona così bene?
Per avere una risposta certa andrebbe scomposta l’alchimia, difficilmente spiegabile, che si crea ogni volta che c’è un caso di successo. Sicuramente conta la bontà del prodotto, condizione non sufficiente ma necessaria: un prodotto innovativo, con stile e design già presenti nella coscienza comune, ma vestito a nuovo. Poi penso che una chiave determinante sia stata la forte attività di vip endorsement e product placement che abbiamo fatto all’inizio: tanto per fare un nome, se Oprah Winfrey non avesse sposato a titolo personale il prodotto, penso che oggi non saremmo qui a parlarne. Aggiungo anche che le persone che hanno lavorato intorno all’idea sono riuscite a non farne spegnere la “fiammella”, a farla crescere fino a farla divampare, lavorando con coerenza e continuità muovendo tutte le leve del marketing, convenzionali e non.

Voi puntate molto sul concetto di “lusso percepito”: ce lo spiega?
Il lusso secondo ToyWatch non è legato al valore intrinseco dell’oggetto, bensì alla percezione che ciascuno di noi gli attribuisce. Una concezione che recupera la valenza soggettiva, la capacità di giudizio del singolo. Ed è una concezione diametralmente opposta al concetto di “marca” comunemente inteso e sul quale fa leva buona parte dell’industria del lusso.

www.toy-watch.it

Davide Passoni